Sentirsi un pesce fuor d’acqua
Vita da Expat
Per scelta, necessità o desiderio di sperimentarsi, vivere all’estero è diventata una realtà sempre più frequente negli ultimi anni e la città di Barcellona, d’altro canto, è a tutti gli effetti un esempio consolidato di multiculturalità.
Expat, o per meglio dire Foreign professional: emigrato qualificato
Mi riferisco all’ondata emigratoria dall’Italia a partire dall’ultima crisi economica del 2009, quando a cominciare ad emigrare è stata la quella generazione fluida fatta soprattutto di persone laureate e spesso iperspecializzate, in una fascia d’età compresa dai 25 ai 50 anni.
Ricominciare quasi da capo
Emigrare può essere un’esperienza eccitante ma allo stesso tempo rappresenta una sfida nel momento in cui le coordinate del nostro mondo (affettivo, relazionale, lavorativo) cambiano, inevitabilmente e rapidamente. Ci si trova ad affrontare cambiamenti specifici ed unici, i cui effetti psicologici sulla persona sono ancora in fase di studio, visto che si tratta di un fenomeno relativamente recente. Ho vissuto in prima persona l’esperienza di inserirmi in una nuova cultura avendo già superato i ‘40 e so che a volte è una situazione con la quale può non essere facile fare i conti.
Cosa lascio e cosa porto
Quando si lascia il proprio Paese d’origine si lascia, in qualche modo, un pezzo di sé. La famiglia e gli affetti sono lontani e, per quanto la comunicazione sia facilitata da mezzi tecnologici che riducono la distanza, viene a mancare la condivisione del proprio quotidiano. E’come se tra noi e “loro”, chi resta, si frapponesse un filtro che a volte ci rivela fotogrammi a colori sgargianti, a volte di un grigio cupo. Col passare del tempo poi ci si ricostruisce nel lavoro, nelle nuove conoscenze e relazioni. Si apprendono lingue nuove e, senza farci più caso, il nostro cervello in automatico fa quel “click” per passare dalla lingua italiana alle altre, spesso ben consolidate.
Vita da Expat, Foreign professional. Quasi fosse indispensabile utilizzare una parola più glamour rispetto a quella di “migrante”, perché questa rimanda a un’altro fotogramma, fatto di barconi colmi di disperati e gilet arancioni sparsi…Ma questa è un’altra storia.
Cosa resta
L’unica cosa che non cambia, nella nuova vita, è qualcosa che si trova proprio dentro di noi, la persona che siamo. Cambia il contesto ma non si modifica il nostro modo di pensare, agire e sentire. Spesso accade che ci troviamo ad affrontare sentimenti connessi alla solitudine e a un senso di estraniamento, alla fragilità emotiva legata alla mancanza del sostegno di una rete sociale soddisfacente; in alcuni casi è l’ansia o addirittura un attacco di panico ad emergere dal sottosuolo della nuova vita.
Quando la rete sociale non può accogliere il nostro malessere
Quando ci accorgiamo che parlarne con un amico fidato non basta, cosa potremmo fare, dunque? In questi casi è possibile ricorrere allo psicoterapeuta (uno psicologo specializzato in psicoterapia) che possa offrirci uno spazio di autentico ascolto ed accompagnamento, proprio quando sentiamo di “aver perso la strada”.
In che lingua penso, in che lingua sento
Quello che molto spesso mi sento dire dalle persone italiane che cercano un terapeuta, è che si erano messe in cerca di un professionista madrelingua. Questo lo riferiscono anche persone che vivono qui da molti anni e che quindi padroneggiano bene sia il castigliano che il catalano. Come mai allora sembra così importante poter usare la propria lingua madre in terapia? E’ stato ampiamente dimostrato che la lingua madre svolge una funzione di imprinting non solo linguistico ma anche emozionale.
L’importanza della lingua madre madre
Una lingua acquisita secondariamente, seppur ben padroneggiata, spesso risulta essere una barriera. In certi casi diventa un’ottima difesa (intellettualizzazione) da certe emozioni. Quando abbiamo bisogno di esprimere ciò che sentiamo realmente, la lingua madre risulta essere il veicolo e l’accesso più immediato alle proprie emozioni, sensazioni e stati d’animo. Perché aprirsi a qualcun altro implica l’uso di una “grammatica emozionale” che appartiene inevitabilmente alla propria lingua madre.
“Parlare a qualcuno in una lingua che comprende consente di raggiungere il suo cervello. Parlargli nella sua lingua madre significa raggiungere il suo cuore”
(N. Mandela)